Juventus, anche Dragusin tra i difensori valutati per gennaio

Un po’ per inclinazione filosofica, un po’ per sopperire ai vari infortuni, Thiago Motta ha pescato molto dalla Next Gen in questi primi mesi alla Juventus (l’ultimo è stato Gil Puche). Il tecnico italo-brasiliano è così attento alla crescita dei giovani che, scherzando, si potrebbe dire che vuole prendere la macchina del tempo e andare al 2020-21 per pescare Radu Dragusin. Secondo Tuttosport il difensore rumeno, dieci presenze nella U23 e una in prima squadra quattro stagioni fa, è infatti entrato nella ristretta lista dei giocatori a cui la Juve pensa per chiudere la casella lasciata vuota dall’infortunio di Bremer nel mercato di gennaio.

Dragusin, che dopo la Juventus era passato in prestito alla Sampdoria e alla Salernitana per poi essere ceduto al Genoa nel 2022, oggi è al Tottenham dove era approdato – anche grazie a Fabio Paratici che allora era il ds degli inglesi – a gennaio per 25 milioni di euro. Titolare fisso in nazionale, con gli Spurs non sta invece trovando grande spazio visto che il tecnico Postecoglou gli ha concesso solo 375 minuti spalmati in sei presenze. L’idea quindi è di chiederlo in prestito, formula con la quale si guarda anche a Skriniar.

Tra gli altri nomi che i bianconeri valutano ci sono Ortiz (Flamengo), Bijol (Udinese) e Tah (Bayer Leverkusen, in scadenza a giugno ma che potrebbe arrivare prima a costi abbordabili in un’operazione che assomiglierebbe a quella di Djalò, tra l’altro curiosamente entrambi obiettivi dell’Inter).

Milan, quel senso di impotenza in attacco. Ma a Monza tornano i creativi, aspettando Leao

Baricentro alto, possesso palla al 61% ma poche occasioni. Il primo tempo senza Theo, Reijnders e Pulisic ha amplificato il problema. Mentre Rafa rimane un curioso mistero 

Milan-Napoli è finita alle 22.40, con l’impressione che il Milan non avrebbe segnato nemmeno se si fosse giocato fino a mezzanotte. Il Milan ha fatto molto bene da area ad area, ma il risultato nel calcio si decide negli ultimi 16 metri. E in un’area hanno sbagliato Pavlovic, Thiaw e soprattutto Maignan, nell’altra il Milan ha mancato tutte le occasioni che si è creato. Una frase di Fonseca spiega molto: “Loro hanno fatto due gol su due occasioni, noi nessuno con più occasioni. Abbiamo mancato le opportunità create. Loro hanno fatto gol, noi no”. 

Il Milan contro il Napoli non ha segnato in casa in campionato per la prima volta da quasi un anno: l’ultima volta era successo il 4 novembre 2023. In mezzo, 18 partite con almeno un gol. Il Milan in questo martedì sera ha avuto il 61% di possesso palla, ha calciato 11 volte verso la porta, ha avuto il baricentro a quasi 59 metri dalla sua porta: altissimo. Bastava vedere la partita, con il Milan accampato nella metà campo del Napoli. Eppure gli expected goals, sotto quota 1, parlano chiaro: il Milan ha tenuto palla, ha giocato ma non ha quasi mai concluso. Morata in un certo senso ne ha parlato: “Con un po’ più di fortuna e lucidità avremmo fatto gol, ma io sono orgoglioso dei compagni”. 

La sfortuna c’è stata ma su quello… c’è poco da dire. Più interessante parlare della lucidità, dei limiti individuali, della partita dei singoli. Morata, con la sua grande tecnica, spesso si è abbassato per aiutare a costruire, lasciando l’area. Chukwueze ha giocato una buona partita, ma ha dribbling e accelerazione, certo non cinismo davanti alla porta. Okafor è piaciuto a Fonseca e non solo, ma nella migliore occasione, in area, ha calciato malissimo. E Loftus-Cheek ha confermato di essere molto lontano dal giocatore che passò come un rullo sul Psg: per il fisico che ha, si fa sentire pochissimo. 

Dalla fascia alle panchine: l’altalena Gatti nella gestione Motta. Che non fa sconti a nessuno

Leader era e tale è rimasto ma mentre i tifosi lo reclamano, Thiago inevitabilmente lo gestisce in una Juve in cui chiunque può accomodarsi in panchina

A Thiago Motta piace chi non vive bene le esclusioni. Non c’è niente di meglio che vedere o anche soltanto percepire quella sana insofferenza di chi sa che può dare tanto e non riesce proprio a stare seduto in panchina. La voglia, lo spirito, la fame fanno la differenza, sempre. Anche quando (e se) queste si vanno a scontrare con una gestione che non fa sconti a nessuno. Nello strattone di San Siro di Thiago Motta a Federico Gatti al momento del suo ingresso in campo, dopo 77 minuti di partita da spettatore, probabilmente è racchiuso tutto questo.

Il difensore di Rivoli ha preso il posto di Danilo quando la Juventus contro l’Inter era sotto 4-3 e la doppietta di Yildiz era un’opera a metà. L’allenatore l’ha caricato a bordo campo, l’ha richiamato a sé per assicurarsi che lo stesse ascoltando e i tifosi hanno tirato un sospiro di sollievo pensando a un Danilo avviato verso la panchina. E alla domanda dei più ha dato voce Zvonimir Boban dagli studi Sky nel post: “Perché titolare il brasiliano e non Gatti?”. “Danilo per impostazione di gioco lo vedo un po’ meglio di Federico in questo momento”, la risposta di Motta che conferma tre certezze di questa fase di campionato: nel cuore della difesa l’intoccabile è Kalulu, il ballottaggio è Danilo-Gatti, chiunque può accomodarsi in panchina. 

Chissà tra qualche anno Gatti come ripenserà a questa seconda metà di 2024 che gli ha regalato anche la paternità. Camilla è nata il 26 settembre, a cavallo tra la partita col Napoli e la trasferta di Genova, le uniche sue due panchine in campionato fin qui. Prima, per cinque partite consecutive, ha indossato la fascia al braccio che “è stato il coronamento di un sogno”, dalla prima giornata di A alla prima di Champions compresa. Poi di nuovo capitano contro il Cagliari. L’ultima volta, finora. Ma con l’allenatore bianconero, si sa, la fascia è senza padrone e continua (e continuerà) ad avvolgere braccia diverse. 

Cosa c’è dietro l’allarme di Inzaghi per la difesa dell’Inter

Tredici reti subite in 9 giornate, più della metà rispetto a quella incassate l’anno scorso in una stagione intera. Contro i bianconeri la conferma

I cinema di Milano hanno già programmato la prossima uscita: “Qualcosa è cambiato, il remake”. Previsto il tutto esaurito. Ma al posto degli occhi spiritati di Jack Nicholson c’è il volto preoccupato di Simone Inzaghi, guida e faro dell’Inter, uno che fino a oggi non aveva mai visto la sua squadra incassare quattro gol in una partita. Metamorfosi. La difesa bunker, un tempo fortino inespugnabile, quest’anno è stata violata più e più volte. L’ultima dalla Juventus.

Il conto dei gol incassati in campionato è salito a 13 in nove partite. La stagione scorsa sono stati solo 22. Sommer aveva tenuto alta la guardia in 19 occasioni, mentre stavolta è a quota tre. Gli errori individuali contro la Juventus impongono domande. La prima: com’è possibile che la storia recente dell’Inter prenda spunto da un romanzo di Louis Stevenson, Dottor Jekyll and Mister Hyde? In Champions non ha incassato neanche un gol. In campionato siamo già a 13. Una differenza netta a livello di attenzione. Dieci squadre infatti hanno incassato meno reti, tra cui Empoli, Udinese, Bologna, Monza, Milan, Fiorentina, Juventus, Lazio. Un passo indietro notevole rispetto all’annata scorsa.

Seconda domanda: come ha fatto un reparto così rodato a compromettere la sua solidità? Il secondo dei quattro gol incassati dall’Inter è il manifesto di questa difficoltà. McKennie si inserisce tra le linee e serve a Vlahovic l’assist dell’1-1. Il tutto senza pressione. De Vrij, uscito in pressing su Cambiaso qualche minuto prima, non chiude la diagonale e se la prende con Bastoni per aver lasciato l’uomo libero. Doppio errore. Il. serbo non è dell’azzurro, bensì dell’olandese, reo di lasciare un vuoto al centro della difesa. Inzaghi in sala stampa è stato vago: “Dobbiamo responsabilizzarci tutti. Ci sono degli errori che si ripetono. Vedi il 4-3 o il 4-4. Bisognava far meglio, ma non parlo di singoli”. Il problema è strutturale.

Motta sorprende: per Yildiz e Thuram rischio panchina, dentro Weah. Fiducia a Danilo

Il tecnico bianconero teme la catena di sinistra dell’Inter e pensa a una Juve senza dieci e con le doppie ali. Il turco diventerebbe una preziosissima arma a partita in corso

Più che una formazione è un rebus. “Tutti possono giocare domani, tutti possono essere titolari”: così Thiago Motta alla vigilia della sfida con l’Inter ha dribblato le domande sulla formazione. Nessuna certezza, nemmeno sul portiere, che a quanto pare non ha dato nemmeno ai suoi giocatori, con l’intento di tenere tutti sulla corda. Qualche cosa però si è intuito dalle prove fatte in questi giorni: il grande dubbio riguarda Kenan Yildiz, che per la seconda volta in questa stagione potrebbe partire dalla panchina (è successo solo contro il Cagliari, quando è entrato nel finale). Quindi niente trasloco alle spalle di Vlahovic, come Motta stesso aveva ipotizzato in conferenza stampa (“Kenan più vicino a Dusan? Perché no”), ma Weah alto a sinistra, con Conceiçao sull’altra corsia e Fagioli a fare il trequartista. Due ali vere in fascia per aumentare i cross per Vlahovic e anche per rendere più affollata l’area di rigore avversaria.

“L’Inter è, insieme al Napoli, la favorita per lo scudetto. Non lo penso io, lo dicono i fatti. Giocheremo contro una squadra forte, dobbiamo portare la partita dalla nostra parte”. Il tecnico bianconero teme i nerazzurri soprattutto sulla corsia di sinistra: “Chi giocherà lo vedremo – ha detto -, però da quella parte l’Inter attacca tanto, non solo con Dimarco ma anche con Bastoni e con Mkhitaryan quando gioca. Dobbiamo fare una grande prestazione sia in attacco sia in difesa”. Forse anche per questo Motta potrebbe tenere Chico a destra, per disturbare la spinta nerazzurra, con Weah a sinistra, dove duetterebbe con Cambiaso.

Anche a centrocampo ci sarà qualche novità: dovrebbe tornare Locatelli insieme a McKennie. Thuram garantisce intensità e fisicità ma Loca e Fagioli sono più utili per tenere il pallone. McKennie è un incursore, conosce i tempi degli inserimenti, può buttarsi in area e anche alternarsi con Fagioli tra le linee. Un centrocampo con questi uomini permette frequenti scambi di posizione, fondamentali per non dare punti di riferimento a una squadra che sa sfruttare bene la fase di riconquista del pallone. 

Casi arbitrali, scippi di mercato, baci rubati: il romanzo proibito di Inter-Juve

La versione milanese di una partita sopra le righe. Da Platini a Vidal, dal caso del mancato rosso a Pjanic allo “smack” di Vidal a Chiellini

oci a San Siro, i soliti sussurri e le solite grida del derby d’Italia. Inter e Juve nemiche odiatissime. Una rivalità che Calciopoli ha reso inconciliabile. Qui mettiamo in fila alcuni Inter-Juve. Una rinfrescata alla memoria della versione milanese di una partita che non avrà mai pace.

Una sequenza storica di Inter-Juve prende forma tra la fine dei 70 e la prima metà degli 80, quando la Serie A è il campionato più bello e più ricco. Inter-Juve 4-0 del novembre 1979, con tripletta di Spillo Altobelli e gol di Muraro. Inter-Juve 4-0 del novembre 1984, con doppietta di Kalle Rummenigge. Poco prima, aprile 1984, Inter-Juve 1-2 con gol di Michel Platini, partita che compare ne “Il ragazzo di campagna”, film cult di Renato Pozzetto. La protagonista femminile è una juventina devota a Platini e trascina in mezzo ai tifosi interisti il “povero” Pozzetto, inseguito poi dagli ultras. Le Roi come soggetto di ulteriore discordia: era stata l’Inter a contattare per prima il fuoriclasse francese nel 1979, ma era stato l’Avvocato Agnelli a convincerlo nella primavera del 1982. Di recente Platini con perfidia ha infilato il pallone nel sette: “L’Inter di oggi è una bella squadra, però gli amici mi dicono che ha tanti debiti”.

Il caso Ronaldo-Iuliano si consuma nel 1998 a Torino, al vecchio Delle Alpi, dunque non appartiene a questa rassegna, riservata agli Inter-Juve d Milano. L’ultimo Inter-Juve prima del grande scandalo si gioca il 12 febbraio 2006 e finisce 2-1 per la Signora. Gol di Ibrahimovic per la Juve, pareggio di Samuel. Poi Del Piero entra al posto di Ibra, segna la rete della vittoria con una gran punizione e mostra la linguaccia in stile Rolling Stones. Del Piero si toglie un sassolone: “Mentirei se dicessi che sono contento di non giocare”.

I dolori del giovane Rafa. Leao è deluso, il Milan chiama in aiuto Fonseca per sostenerlo

La società vuole recuperarlo e cerca conforto nell’allenatore. Ma per sabato il ballottaggio con Okafor è aperto

D ue sere fa è stato Noah a fare Leao, e Rafa a fare Okafor: quando il dieci rossonero stava sfilando, sostituito, verso la panchina, ecco il colpo di classe dell’ex attaccante del Salisburgo. Okafor veste la maglia 17 in onore di Leao, che la indossava prima di lui: e Rafa lo ha definito più volte un “fratellino” in onore alla loro grande amicizia. 

Quando Noah ha risolto la partita con il Bruges, con l’assist a Reijnders, Leao si è limitato ad alzare le braccia per poi sedersi in panchina. Per il gol (poi annullato) a Camarda tanto valeva rialzarsi e partecipare alla festa, che Rafa ha poi lasciato per primo. Subito negli spogliatoi mentre la squadra festeggiava sul campo e via da San Siro quando la partita era finita da meno di un quarto d’ora. Leao è uscito dallo stadio a testa bassa, zaino in spalla, in mano il beauty case, una maglietta del Bruges e ai piedi degli improbabili ciabattoni neri. Neri come l’umore: Rafa si rende conto di essere in un momento difficile, anche sfortunato. Il caso ha voluto che il Milan svoltasse in Champions un attimo dopo che era stato tirato fuori dal campo. E sì che fino a quel momento non aveva fatto mancare il proprio contributo offensivo. Con gli avversari stanchi però servivano forze fresche: il ragionamento di Fonseca sta tutto qui. Così come quattro giorni prima contro l’Udinese Rafa era rimasto novanta minuti seduto per via dello strano andamento della partita: con il Milan in dieci dalla mezzora c’era bisogno di piedi più allenati alla battaglia. Leao, per indole e per caratteristiche, è più portato per altro.

Berenbruch e Aidoo, aria di Champions: chi sono i ragazzi che Inzaghi ha portato a Berna

Le assenze di centrocampo spalancano le porte a due gioielli della Primavera.È nell’emergenza che spesso si trova il coraggio, quello che serve per dare un’occasione a tanta beata gioventù italiana. Adesso che a Simone Inzaghi si è di colpo ristretto il centrocampo, pescare dalla Primavera è una necessità: col tempo, però, potrebbe diventare pure un’arte. Oggi nella trasferta di Champions contro lo Young Boys qui a Berna, dalla panchina partono due piccole pietre preziose delle giovanili nerazzurre, una mezzala e un esterno con spirito europeo. “Berenbruch e Aidoo sono qui soltanto perché lo meritano…“, ha detto il tecnico nella conferenza di vigilia per aprire le porte di casa ai talentini 2005. Davanti hanno una testuggine, un reparto in cui è ardito pensare di farsi strada subito, ma lo studioso Thomas e il frizzante Mike conoscono la pazienza e sono qui per restare. 

Il cognome dalla dura pronuncia non inganni, Thomas Berenbruch è italianissimo come lo sono i genitori: se il nonno paterno arrivò qui dalla Germania, lui è nato a Milano e si è ritrovato felicemente all’Inter a 15 anni, pescato dal più umile Renate.

Nella Primavera ora allenata da Zanchetta, in cui abita da due anni, è la stella che ruba gli occhi, ma è soprattutto adesso che sta facendo parlare di sé oltre al recinto delle giovanili: a Roma era seduto per la prima volta in gara ufficiale in panchina con i grandi, e c’è mancato poco che non entrasse. Ha guardato da vicino i due idoli della prima squadra, Barella e Mkhitaryan, ma è soprattutto all’armeno che pare assomigliare: duttile da trequartista e da mezzala, classe che sgorga naturale con entrambi i piedi, non velocissimo ma inesauribile durante la partita. E ancora serio e applicato, dal sapore asciutto senza troppe meringhe, come aveva visto Inzaghi già durante la preparazione estiva.

Motta con Yildiz e Vlahovic all’assalto del terzo successo per ipotecare i playoff

Lo Stoccarda, che lascia tanti spazi, dopo Psv e Lipsia: 9 punti per la qualificazione. Lippi campione d’Europa ‘96 vinse le prime quattro di fila.

Non si erano lasciati bene la Juve e l’Europa. Champions ’22-23, quella con Napoli ai quarti, Milan in semifinale e Inter a contendere il successo al City. Niente coppe l’anno successivo: la Juve è squalificata per le plusvalenze. Il rientro a settembre in questa nuova Champions. Una partenza da bei tempi: 3-1 al Psv, 3-2 a Lipsia, in dieci, due volte sotto, un rigore disgraziato contro.

Si chiamano partite della svolta: il giorno dopo non è più lo stesso. Stasera c’è lo Stoccarda, inferiore ai bianconeri. Le partite della svolta segnano un’epoca. Come Borussia Dortmund-Juve 0-3 nel 2015, ancora Allegri in panchina: è quasi l’ok della torre di controllo verso la bella finale con il Barcellona. Come Borussia Dortmund-Juve 1-3 nel ’95: Del Piero segna uno dei gol della vita, la Juve di Lippi scopre di essere fortissima, sente di poter vincere la Champions. Succederà a Roma contro l’Ajax. Oggi c’è un’altra tedesca, lo Stoccarda, meno fascinosa di Dortmund e Lipsia, ma incrocio fondamentale per tornare la Juve d’Europa. 

La Juve di Thiago Motta, come quella di Lippi, non cambia strategia per gli avversari o se gioca in trasferta: vuole comandare, gestire palla, attaccare. Quella di Lippi resta nella storia per corsa, strapotere fisico e uno dei primi tridenti “ritornanti”: senza palla, Vialli e Ravanelli diventano quasi mediani di copertura, lasciando Del Piero più avanti. Un ciclo ineguagliabile, quattro stagioni e quattro finali consecutive: la prima in Coppa Uefa, le altre in Champions.In semifinale la Juve si sbarazza del Nantes. Quindi l’apoteosi all’Olimpico contro l’Ajax. Dieci partite per una coppa. Oggi ne servono minimo quindici. 

Inter, Dimarco va oltre il derby: “Stimo tanto Theo Hernandez. Ora mi insulteranno…”

L’esterno ha raccontato la sua fede nerazzurra: “La finale col City? La più grossa delusione a livello di club, ero morto. Ma non era il nostro momento”

“Ci sono giocatori come Theo Hernandez che io stimo tantissimo, anche se adesso mi insulteranno. Ma io lo stimo. Come altri giocatori di altre squadre. Da piccolo c’era Carlos, mi piaceva anche Maxwell”. Parola di Federico Dimarco, intervenuto al Bsmt, podcast di Gianluca Gazzoli, che a cuore aperto si è lasciato andare anche a questa dimostrazione di stima trasversale al derby di Milano.

È stata comunque l’occasione per ribadire la sua fede interista: “Sono l’ultimo dei predestinati. Devo tanto a quello che ho vissuto nel settore giovanile, quello che mi hanno insegnato le persone che ho incontrato. Sono cose che mi porto in campo e fuori”. E poi: “Se sento le gare di più? Forse troppo. Però negli anni ho imparato a gestire le emozioni. Il brivido più grande è stato per l’ultimo derby. Quando perdiamo, l’incazzatura mi passa dopo due o tre giorni, quando ci sono le tre partite in una settimana è più facile. Ovviamente giocare nell’Inter per me è bellissimo e cerco di dare il massimo. La maglia va trattata coi guanti ma lo penso veramente”.